La qualità non basta ma è il primo requisito

La libertà è partecipazione. Lo cantava Gaber, ma il concetto si può applicare anche al giornalismo su Internet. Tu, lettore, vuoi leggere quello che scrivo e diffondo sulla democratica Rete, devi contribuire in qualche modo. Il concetto sembra essere arrivato sino in Germania. Dove, dal 27 giugno, il colosso mondiale Der Spiegel ha lanciato il progetto Spiegel Plus, una forma di pagamento dei contenuti editoriali esteso anche al sito. I pezzi “in offerta” sono scelti sia dal settimanale cartaceo sia dallo Spiegel Online. Consultando il vademecum dell’iniziativa, si apprende che a disposizione c’è una rosa di articoli, ognuno al costo di 39 centesimi. Si può pagare dopo aver raggiunto la somma di 5 euro oppure siglare una sorta di abbonamento settimanale. Primi passi nell’intricato mondo del paywall. Di questa sfida avevo parlato con il direttore Klaus Brinkbäumer in un’intervista pubblicata il 9 aprile su Piazza Digitale, blog del Corriere della Sera.

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Klaus Brinkbäumer, Chefredakteur dello Spiegel Online

“Kostenloser Journalismus hat seinen Preis”, Il giornalismo gratuito ha il suo prezzo: il motto spunta cliccando sugli articoli del quotidiano tedesco Die Tageszeitung. È uno dei principali giornali nazionali ad aver adottato il paywall, il pagamento dei contenuti online, che in Germania viene applicato in diverse forme. Il sito della Bdzv (Bundesverbands Deutscher Zeitungsverleger), associazione federale degli editori, ha creato una pagina apposita alla voce paid content, con l’elenco delle testate e la rispettiva formula. Taz (Die Tageszeitung è abbreviata così) si basa sull’offerta volontaria del lettore, mentre Die Welt e Süddeutsche Zeitung hanno scelto il cosiddetto metered paywall, una modalità parziale che permette di avere accesso a un tot di pezzi gratuiti prima di passare al pagamento. L’opzione Freemium, introdotta da Bild e Handelsblatt, risponde a una strategia diversa: secondo il giornale alcuni contributi hanno un valore così esclusivo che l’utente è disposto a mettere mano al portafoglio.

In questo quadro piuttosto variegato, mancano però all’appello alcune colonne portanti del pantheon giornalistico tedesco, come Die Zeit, Frankfurter Allgemeine Zeitung e Spiegel Online. Di recente quest’ultimo ha affidato a parte del suo staff un sondaggio esplorativo nell’azienda e tra gli ex lavoratori. La bozza di una sessantina di pagine dell’Innovation report, diffusa dall’emittente Südwestrundfunk (Swr), porta a galla anche valutazioni di questo tipo: “aumentiamo la nostra importanza”, “ogni unità ha i propri riferimenti e ottimizza il proprio successo senza considerare le altre”, “sperimentiamo troppe poche cose che siano davvero nuove”. Accanto a problemi di metodo, vengono evidenziate esigenze pratiche, come cambiare sede, per avere ambienti idonei a realizzare progetti interdisciplinari, e intervenire sul “caos dei loghi”, circa 37, dei vari prodotti editoriali. Di fronte a questo risultato, i vertici del gruppo hanno subito detto la loro: «Anche se non siamo necessariamente d’accordo con ogni punto delle obiezioni, consideriamo l’apertura e la capacità di fare e ricevere critiche una parte essenziale del processo di cambiamento che desideriamo».

Così si legge in un comunicato scritto dal direttore del settimanale cartaceo Klaus Brinkbäumer, dal direttore dello Spiegel Online Florian Harms e dall’amministratore delegato Thomas Hass, pubblicato dalla Swr. Il “processo di cambiamento” è l’opera di ristrutturazione avviata attraverso la cosiddetta Agenda 2018, presentata dal gruppo Spiegel a dicembre, anche se il programma era già stato anticipato lo scorso giugno. Due i verbi al centro del documento: “risparmiare” e “crescere”. Da una parte 100 misure per abbassare  i costi di circa 16 milioni di euro, dall’altra 15 progetti editoriali (tra cui il paywall) che riguardano tanto il cartaceo quanto il digitale. Questi mondi Klaus Brinkbäumer li conosce molto bene essendo anche executive editor dello Spiegel Online. Quando Hass illustrando il piano dell’Agenda 2018 ha detto «il futuro è nelle nostre mani e nelle nostre menti», si riferiva anche a lui. Questa è l’intervista che il direttore ha rilasciato a Piazza Digitale alla fine di gennaio. 

Il futuro del giornalismo, Herr Brinkbäumer? Sarà digitale o cartaceo?
Entrambe le cose. Ovviamente in misura crescente digitale ma allo stesso tempo per molti anni rimarrà cartaceo.

Nel frattempo Spiegel Online ha deciso che sperimenterà il paywall. Di che modello si tratta?
Cominciamo con il pagamento di singoli testi, con dei “pass” quotidiani e altri modelli di abbonamento.

Quando partirà?
Presto, non c’è ancora una data.

Il pagamento degli articoli online ha anche degli svantaggi? Secondo lei la qualità dei contenuti può bastare?
No, ma dei buoni contenuti sono il primo requisito, e il secondo è la platea di lettori che noi grazie a Spiegel Online fortunatamente abbiamo. Importante è la correttezza, dobbiamo prendere sul serio i nostri lettori e fare loro offerte flessibili, oneste.

Nel 2014 l’allora direttore Wolfgang Büchner disse in un’intervista al quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung: «Non penso che sia il caso far pagare del tutto o in parte Spiegel Online. Perderemmo una grossa parte dei lettori e quindi delle entrate per la pubblicità. E non dobbiamo dimenticare: abbiamo una forte concorrenza su Internet che è chiaramente gratuita». Cos’è cambiato?
La nomina del direttore forse? (ride). Crediamo che le persone da tempo abbiano imparato a pagare per contenuti digitali o per prodotti comprati online. Gruppi editoriali come New York Times e Financial Times dimostrano come può andare.

Proprio Büchner voleva unire le redazioni della carta e del web, con il programma Spiegel 3.0, andato in frantumi dopo neanche un anno. Perché secondo lei? Lei come valutava quel progetto?
Mi dispiace, ma non posso commentare la strategia del mio predecessore.

Nell’Agenda 2018, oltre al paywall, ci sono molti altri progetti. E alcuni li avete già realizzati..
All’inizio di dicembre abbiamo avviato la nuova app, che traspone il giornalismo investigativo dello Spiegel in forme di racconto multimediale ed è diventata straordinaria. Spiegel Daily diventa un quotidiano digitale: proviamo, produciamo numeri zero, programmiamo. Non abbiamo ancora stabilito una data di partenza. Inoltre sviluppiamo appunto una forma di pagamento per Spiegel Online e diversi nuovi formati, in ogni caso digitali, ma anche cartacei come Spiegel Biographie.

Nel documento però si legge che la casa editrice Spiegel-Verlag entro il 2018 ha intenzione di tagliare 150 degli attuali 727 posti di lavoro. Lei non la definirebbe una sconfitta?
Sì, perché nessuno di noi riduce volentieri dei posti di lavoro. Ma una direzione responsabile del gruppo ha il compito di prendere atto che i nostri costi sono troppo alti. Lo Spiegel è solido e indipendente, ma vuole anche rimanere tale.

L’anno scorso il fatturato si attestava sui 284,9 milioni di euro. Nel 2007 si aggirava intorno ai 350 milioni di euro…
I ricavi delle vendite sono rimasti piuttosto costanti, mentre le entrate della pubblicità hanno arrancato. In confronto agli altri giornali tedeschi la situazione delloSpiegel o anche della Die Zeit è molto buona. Certo Google e Facebook, calamite di pubblicità, non dovrebbero scomparire, per il momento.

Nel 2015 siete scesi per la prima volta sotto le 200mila copie singole vendute del settimanale (numero 46 di novembre). Mentre Spiegel Online ad agosto per la prima volta dal 2011 è andato sotto i 10 milioni di utenti unici sul sito. Come interpreta questi dati?
Come uno sprone. In tempi di cambiamenti strutturali, nessuno ha la facoltà di fermarsi, perché i successi di ieri non hanno più grande valore il giorno dopo. Dovremmo essere vigili e veloci, sempre.

La vostra testata è presente su Twitter, Pinterest, Instagram, Snapchat e ovviamente su Facebook. Il responsabile social-media Torsten Beeck ha filmato il primo “Instant Article”. Che ruolo hanno i social media nella sua redazione?
Un ruolo sempre più importante. Io stesso ho imparato prima di tutto che i lettori oggi si aspettano di poter raggiungere il direttore e questo mi fa piacere. 

Der Spiegel è sinonimo di giornalismo d’inchiesta. Quali sono le prospettive di questo genere giornalistico, in Germania e nel mondo?
È la nostra essenza, e noi ne avremo cura così come avremo cura della nostra rete di corrispondenti. Il giornalismo investigativo tuttavia è nel complesso minacciato perché costa tempo e denaro, e gli editori hanno tagliato i loro budget.

Herr Brinkbäumer, l’ultima domanda voglio fargliela sull’Italia. La sua testata in passato ha espresso critiche molto severe nei confronti degli italiani. Ma lei cosa pensa davvero della nostra stampa?
Amo l’Italia, andavo a trascorrerci le vacanze da piccolo. Mi piacciono molti giornali italiani e molti blog. La televisione italiana meno. Però, naturalmente, non sta a me dare consigli o raccomandazioni.

 

Il tallone di Hillary

Il giornale tedesco The Local ha stilato una sorta di lista della spesa per Hillary Clinton, tra i candidati dei democratici alle primarie americane per le elezioni del prossimo novembre. Sei ingredienti che l’ex first lady, prima donna a diventare presidente, potrebbe importare dalla prima cancelliera della Germania al governo da dieci anni, Angela Merkel.

Hillary Rodham Clinton, Angela Merkel
Hillary e Angela al Dipartimento di Stato di Washington nel 2011 (Foto: AP/Manuel Balce Ceneta)

Tra queste ce n’è una su cui soffermarsi, la penultima: “trasformare la più grande debolezza nella propria forza”, ovvero rendere il tallone d’Achille un cavallo di battaglia. Pensando a Merkel viene incontro subito un esempio concreto. Le mani intrecciate a forma di piramide rovesciata, ormai un suo tratto distintivo: secondo il giornalista del The Local Jörg Luyken quel gesto è il risultato del fatto che la politica, davanti all’obiettivo di fotografi e operatori, “non ha mai saputo cosa fare con le mani”. E quindi, deduce il lettore, si è inventata la posa per tamponare e amministrare la goffaggine innata in situazioni analoghe. E sempre il lettore, a partire da questo articolo, potrebbe ricordarsi un altro pezzo, dal titolo Mysterious Merkel, apparso nel 2011 sul settimanale statunitense Newsweek. 

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La copertina di Newsweek (dicembre 2011)

L’autore Roger Boyes riprende un passo della biografia scritta da Margot Heckel, che racconta la paura dei tuffi di Merkel bambina. Un giorno ad esempio, a scuola, è rimasta immobile per tutto il tempo, pronta per l’immersione, ma solo nel preciso istante in cui è suonata la campanella della scuola, a decretare la fine della lezione e a spopolare la piscina, è riuscita a sprofondare negli abissi. L’episodio può suggerirci qualche spunto di buon senso sulla sua psicologia, continua Boyes, senza scomodare la psicanalisi: “esita, rimugina e eventualmente trova il coraggio di agire”. L’affermazione trascina con sé anche un altro interrogativo, più complesso: “non potrebbe essere che lei aveva, e ha tuttora, paura di sbagliare agli occhi degli altri?”. Di certo c’è una conclusione da fare: “ha stirato le regole fino al limite ma alla fine è rimasta nel loro perimetro”.

L’aneddoto descrive, si suppone, una delle prime volte in cui la giovane tedesca ha saputo “trasformare la più grande debolezza nella propria forza”. E così dovrebbe fare anche Hillary Clinton, secondo The Local, per lavorare su un certo “imbarazzo sul palco”. “Forse – è la conclusione dell’analisi – una chiamata veloce al Kanzleramt (Cancelleria federale) potrebbe tornare utile”.

 

 

La collaborazione privilegiata

Gerhard Schröder, cancelliere in Germania dal 1998 al 2005, padre dell’ambizioso programma di riforme sociali sotto il nome di Agenda 2010, quattro matrimoni. E nessun funerale, se si esclude quello del suo partito, la Spd, che è sì nella coalizione di governo ma ha senza dubbio vissuto tempi migliori.

Nell’intervista sull’ultimo numero del settimanale Die Zeit, Schröder parla non solo dei socialdemocratici ma anche delle scelte di Angela Merkel, dei risultati delle recenti elezioni nei tre Länder, del discreto successo dell’Alternative für Deutschland. E della Turchia: un bel fascicolo corposo piantato sui tavoli del Consiglio europeo di giovedì 17 e venerdì 18 a Bruxelles. Era stato lui, l’ex cancelliere, insieme all’allora premier inglese Tony Blair, ad avviare le trattative per l’entrata nell’Unione europea. Correva l’anno 2004.

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L’intervista all’ex capo del governo

«Cdu e Csu invece hanno optato per l’ambigua proposta di offrire alla Turchia una “collaborazione privilegiata”. Con la conseguenza che parti importanti della società turca hanno detto: gli Europei allora non ci vogliono proprio. Il fine ha portato al fatto che ora dobbiamo comprarci la cooperazione con la Turchia a caro prezzo- ci costa del denaro profumato»

Dunque siamo diventati ricattabili? Domandano Marc Brost e Peter Dausend.

«L’Europa ha soprattutto la motivazione di essere grata. La Turchia, è lampante, ha accolto più rifugiati di tutta quanta l’Ue. E l’accoglienza- in confronto alle situazioni in Giordania o in Libano- è stata anche ben gestita. Per questo il denaro che vuole dall’Ue per i rifugiati è stato elargito con razionalità. Certo che siamo in parte dipendenti dalla Turchia e questa situazione porterà con sé delle pretese. Per questo il progetto della “collaborazione privilegiata” ha fallito fragorosamente. Non si può neppure dire ai Turchi, come fa ora la Csu: noi abbiamo bisogno di voi ma il visto ve lo scordate. Questa non è una politica assennata»

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Sigmar Gabriel (sulla sinistra), attuale presidente della Spd e vicecancelliere, festeggia il 70esimo compleanno di Schroeder

E allora se l’Europa avesse avvicinato la Turchia, a quest’ora il regime non perseguiterebbe i curdi oppure non si accanirebbe sulla stampa, chiedono rilanciando i giornalisti.

«Questo non lo so. Mettiamo che le trattative per l’adesione fossero andate avanti: che una linea del genere avrebbe portato a degli effetti positivi in termini di apertura e democrazia in Turchia, questo nessuno può contestarlo in alcun modo. Lo sviluppo politico in Turchia ha anche a che fare con il fatto che l’Ue negli anni passati si è mostrata fredda»

È il pensiero dell’ex leader Spd sulla “collaborazione privilegiata”. Una posizione che infila il dito in un tabù nazionale e che non tarderà a smuovere le repliche politiche.

L’icona

«Devo ringraziare tutti, partendo dagli albori della mia carriera…Mister Jones per avermi scelto nel mio primo film, Mister Scorsese per avermi insegnato così tanto sull’arte cinematografica. I miei genitori, nulla di questo sarebbe possibile senza di voi. E i miei amici, vi amo con tutto il cuore, sapete cosa rappresentate per me»

Sono alcune parole del discorso di Leonardo DiCaprio, sul palco del Dolby Theatre, fresco di Oscar come miglior attore. Il protagonista di The Revenant, classe 1974, star di Hollywood, ha impugnato la statuetta nel 2016. Per la prima volta, dopo sei nomination. E dopo una sfilza di film, vent’anni e passa di carriera. Il fatidico speech è stato anticipato da un boato di acclamazione. Accompagnato da una cascata inarrestabile di commenti online, e non solo. Commenti che si sono aggiunti a esternazioni e messaggi di supporto, in circolazione da molto tempo.

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Non arrendersi mai: è il murales che è stato dedicato all’attore su La Brea Avenue a Los Angeles, dove è nato (foto: Ciak)

Vi siete mai chiesti perché negli ultimi anni così tante persone si siano mobilitate per l’Oscar di DiCaprio? Perché così tante persone abbiano chiesto a gran voce: date un Oscar a Leo? L’artista ha sempre visto da lontano il premio, il più ambito per chi ha scelto di fare cinema. Un “caso”, una maledizione, adottata dal pubblico. Ad esempio, per il loro beniamino alcune fan russe avevano realizzato in anticipo delle imitazioni fatte a mano dell’ambito trofeo.

Sì, è vero: la vittoria mancata si è prestata facilmente a essere preda di battute pungenti, gif esilaranti, video di sberleffo. La dimensione ridanciana è emersa sopra tutti gli altri aspetti della faccenda. Ormai la smorfia divertita partiva in automatico appena entravamo in contatto con l’accoppiata DiCaprio-Oscar. E scattava la petizione, seppur ironica.

Ricordate, però: la satira nasce sempre da una sensibilità collettiva. Per chi lo sottoscriveva, quell’appello valeva davvero. Seriamente.

Allora la risposta alla nostra domanda iniziale si trova nella dinamica degli eventi. Tanti volevano che DiCaprio fosse incoronato dai giurati dell’Ampas (Academy of Motion Picture Arts and Sciences). Perché è bravo, perché lo merita. È diventato l’icona di chi ha talento, di chi lavora in modo rigoroso, approfondito, ostinato. Di chi, tuttavia, non ottiene riconoscimenti pubblici. Nel caso specifico, il riconoscimento più prestigioso. Di chi, malgrado la delusione, non si sposta di una virgola e tira dritto. Lo status di icona comporta anche un po’ essere idealizzati, ma fa parte del meccanismo e va bene così. Dopo la notte del 28 febbraio, dopo l’88esima edizione che gli ha conferito una consacrazione a lungo sfuggita, Leonardo DiCaprio ora è l’icona di qualcos’altro.

Del fatto che le capacità da un lato e lo studio dall’altro, alla fine, brillano sotto gli occhi di tutti. Anche se occorre aspettare un po’ e in mezzo pigliarsi in faccia qualche schiaffo psicologico.

Questo vale per la nuvola dorata di Hollywood, come per il resto del discreto mondo terreno. Il mondo di tutti quelli che scrivevano o dicevano: #OscarforLeo.

 

L’undicesimo punto

Il partito guidato dalla cancelliera Angela Merkel, la CDU, ha approvato l’agenda del 2016. Il documento si intitola Mainzer Erklärung ed è stato riassunto in dieci punti.

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Il tavolo di Mainz, con Merkel e alcuni dirigenti della CDU (foto: RP Online)

Nella “dichiarazione di intenti di Magonza” (sede dell’incontro, 8 e 9 gennaio) trovano spazio i temi in cima alla lista dei conservatori: occupazione, tutela della famiglia, mercato interno digitale, appoggio al Ttip. Ovvio che però al centro del programma ci sia, prima di ogni altra cosa, la discussione rianimata dai fatti di Colonia, dove centinaia di donne hanno denunciato le aggressioni subite nella notte di Capodanno. Tra i sospettati ci sarebbero anche 18 migranti, accusati di furti e lesioni.

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Un passaggio-cardine del documento di undici pagine

 

Nel brano riportato qui sopra viene sintetizzato il principio alla base della condotta della CDU in materia di sicurezza. L’Unione cristiano-democratica vuole ridurre gli ostacoli all’espulsione e all’allontamento degli stranieri passibili di pena, espellendo i migranti che siano stati condannati anche con la sospensione condizionale. Lo ribadisce Volker Kauder, capogruppo parlamentare CDU, durante la sua visita nella redazione del giornale Rhein-Zeitung. C’è bisogno di un «cambiamento dei tempi», è il punto di vista di Guido Wolf, candidato per il Baden-Württemberg alle elezioni in calendario a marzo in cinque Länder. E poi c’è «l’umore della base sottoterra», riporta sempre Deutschlandfunk citando Carsten Linnemann, a capo del MIT dei partiti CDU/CSU (Mittelstands- und Wirtschaftsvereinigung, Associazione del ceto medio e dell’economia).

Merkel dal canto suo sottolinea come questa decisione sia stata presa «nell’interesse dei cittadini, ma allo stesso della maggior parte dei rifugiati». Lo sottolinea perché lei è la cancelliera che ha aperto ai migranti e ha scelto l’accoglienza come cifra distintiva. Ora però i colleghi le ricordano, di nuovo, che fra le fila del partito (dirigenti e militanti) molti sono frustati per i recenti eventi e soprattutto per la linea politica sul fronte dell’immigrazione. Questo braccio di ferro, potremmo dire, costituisce l’undicesimo punto della Mainzer Erklärung.

Non scritto, eppure altrettanto cruciale.

 

Il caminetto

“Il discorso del caminetto” è la formula con cui la Repubblica anticipava in sintesi lo spirito del messaggio, il primo di fine anno, del capo dello Stato Sergio Mattarella (eletto il 31 gennaio 2015).

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Uno sguardo emblematico dello stato d’animo (foto: Ansa)

Il rimando è all’accezione, diremmo, positiva del termine: le conversazioni del caminetto (fireside chats), inaugurate dal presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt. Ovvero trasmissioni radiofoniche di grande successo in cui si rivolgeva direttamente agli americani per spiegare, in quel caso, l’azione di governo. Un rapporto familiare e informale con i cittadini. Praticamente il contrario del secondo significato assunto dalla parola in italiano: la politica del caminetto indica le riunioni ristrette e segrete di pochi in cui si prendono decisioni di peso, al riparo dalla trasparenza e dal pluralismo.

«Questa sera non ripeterò le considerazioni che ho fatto, giorni fa, incontrando gli ambasciatori degli altri Paesi in Italia sulla politica internazionale, e neppure quelle svolte con i rappresentanti delle nostre istituzioni. Stasera vorrei dedicare questi minuti con voi alle principali difficoltà e alle principali speranze della vita di ogni giorno.»

Un esordio programmatico quello di Mattarella, dopo aver messo in soffitta la poderosa scrivania di legno, quasi costituisse un muro frapposto tra il suo monito e il pubblico in ascolto, infrangendo le previsioni delle settimane addietro. Ha optato per le stanze dell’appartamento privato al Quirinale. Intorno: una stella di Natale, il presepe sotto la campana, alcuni foglietti in mano tirati in ballo come canovaccio o come scenografia. E poi una poltrona, elegante ma non troppo pomposa.

Il discorso senza scrivania è una novità del 2015. E forse dei futuri discorsi di fine anno firmati Mattarella.

Davanti al caminetto. Quello di rooseveltiana memoria, s’intende.

 

Lo straniero in patria

Un contrappasso.

stajano new.jpgCorrado Stajano definisce così il rapporto tra i suoi scritti e gli studi accademici, che hanno motivato il titolo di “laureato benemerito”, il premio annuale dell’Associazione laureati in giurisprudenza dell’Università degli Studi di Milano. Un titolo davanti al quale prova quasi pudore e che smonta pezzo per pezzo. «Mi sono iscritto per rigetto, l’Università la frequentavo pochissimo e la mia tesi era bruttissima. Non ero un bravo scolaro», esordisce così davanti all’uditorio presente per festeggiarlo. Poi, una volta finito l’incontro, quando la stanza si svuota e le persone se ne vanno, depone l’arma del paradosso e si siede su una sedia piuttosto alta e regale della Sala Napoleonica dove si è svolta la premiazione. Ha l’aria di chi è contento di aver rivisto vecchi amici e compagni di vita, di aver ascoltato i loro attestati di stima. Ed è soddisfatto anche di quel premio che gli è stato assegnato per più ragioni, tutte intrecciate tra loro, tenute insieme dalla passione per la giustizia.

In fondo i tomi di legge e le lezioni nelle aule della Statale hanno lasciato un’impronta indelebile, nel contenuto come nella forma. Stajano ha raccontato i temi più complessi del mondo della giustizia, nei libri, negli articoli, nei documentari televisivi. La mafia, il terrorismo, il malaffare. Lo ha fatto con uno stile quasi scientifico, equamente diviso tra saggistica e indagine. Perché questa scelta? «Io non sono lo psicanalista di me stesso», risponde di scatto. La tentazione del paradosso è in agguato, ma decide di governarla dopo poco. «All’inizio ho scritto dei racconti tradizionali, poi ho capito che quella combinazione formava una sorta di pasticcio. Mi sono sentito come un pastaio». Forse è anche il metodo più efficace per analizzare questioni del genere. «Non lo so, per me è stato naturale, non so come sia nato».

La decisione di candidarsi in politica invece è nata da un’esigenza precisa. Era il 1994, Berlusconi si presentava per la prima volta alle elezioni. Il giornalista cremonese sarà senatore fino al 1996 e ora guarda quell’esperienza con lo stesso bonario distacco demolitore del suo intervento durante la premiazione. «Non so neanche se sono contento di averla fatta, ho visto un’oligarchia. Volevo essere utile, penso di esserlo stato pochissimo». Eppure ricorda con divertito piacere l’abitudine di annotarsi su dei pezzettini di carta ciò che avveniva a Palazzo Madama, gli atteggiamenti e le frasi dei colleghi. A casa, dietro Piazza Farnese, li appiccicava tutti su un diario. «Avevo già deciso che ne avrei cavato un libro, ma non ho fatto il senatore per scrivere un libro», conclude. La battuta permette di provare a rifare la prima domanda, che Stajano aveva in qualche modo scansato. Allora, qual è il valore di questo premio? «Io sono spesso uno straniero, ma ce ne fossero di stranieri, più stranieri di me, in questa Italia così infelice. È un Paese pieno di energie positive che vengono dimenticate, scartate. Perché devono vincere sempre i peggiori?».

Non fa in tempo a terminare la frase e la sedia è già vuota.

Articolo pubblicato il 14 dicembre su La Sestina, testata online della Scuola di Giornalismo Walter Tobagi 

La critica

Il matrimonio tra i coniugi Merkel e Potere compie dieci anni: il 22 novembre 2005 la leader della CDU diventa la prima cancelliera donna in Germania, subentrando a Gerhard Schroeder (SPD). Quello alla sua sinistra nella foto qui sotto, dove sono raccolti tutti i predecessori.merkel10

La foto è stata riproposta da Der Standard, quotidiano austriaco, nell’articolo dedicato all’anniversario. E sembra quasi un quadro, la foto, per qualità e suggestione dell’immagine. Verrebbe quasi voglia di fingersi critici d’arte, assumerne la classica posa (stile Kohl, il personaggio accanto a Schroeder) e formulare un’interpretazione della scena, scimmiottando quelle serie dei libri.

Suonerebbe più o meno così.

Soffermiamoci sul particolare in fondo a destra, che forse potrebbe sfuggire. La signora col compito di sistemare i primi piani non ha ancora appeso quello di Frau Merkel. Perché? Che cosa significa secondo l’autore (immaginario) della nostra (immaginaria) opera? Due le scuole di pensiero: da una parte si tratterebbe di un’allusione al mandato ancora in corso della Kanzlerin, la quale potrebbe ricandidarsi alle elezioni del 2017. Dall’altra, il gesto incompleto nasconderebbe un simbolo (c’è sempre la teoria simbolica): Merkel, malgrado un’autorevolezza riconosciuta e ingombrante, malgrado la Grexit sventata dopo estenuanti trattative (e lunghi anni di rigore) e malgrado l’autoelezione a paladina dell’accoglienza dei profughi – per citare gli episodi più recenti – non ha lasciato un’impronta personale nel suo Decennio. Una riforma, un’impresa, una data segnata in rosso.

In sintesi, mancherebbe una portata storica nei suoi governi – come sintetizza uno dei paragrafi dell’articolo – a differenza di chi ha governato prima di lei. Schroeder è il padre dell’Agenda 2020, Kohl l’uomo della Riunificazione, Schmidt sconfisse la Rote Armee Fraktion, Brandt fu Nobel per la Pace in virtù della sua Ostpolitik e potremmo continuare..Il quadretto quindi è sospeso, in attesa di qualche decisione con la d maiuscola con cui possa meritarsi la parete.

La critica, al momento, dice questo. Der Standard non è l’unico a pensarla così, forse la stessa Merkel è d’accordo. «Heute wird gefeiert, ab morgen wieder gearbeitet». «Oggi si festeggia, da domani di nuovo al lavoro», il commento dopo la sua terza rielezione, nel 2013. E chissà che non l’abbia ripetuto anche in occasione del suo decimo anno da cancelliera.

 

Il metodo di Gram

“Hai aggiornato il blog?”

La domanda risuona nelle meningi di ogni blogger, cioè di ogni persona che ha un blog. La data dell’ultimo articolo – in gergo, post– è l’ossessione, all’origine di un meccanismo perverso. Almeno per alcuni. Perché da una parte c’è il cruccio di non riuscire a scrivere con costanza, dall’altra non si fa nulla per porvi rimedio. Gli occhi e la mente indugiano su ciò che è stato già pubblicato, la mano è quasi bloccata al pensiero di dover digitare un nuovo testo sulla tastiera del computer. Meglio attendere il prossimo guizzo, o il momento propizio.

Un atteggiamento bizzarro. Forse perché quello spazio è una nostra creatura, perché crediamo di avere l’ultima parola, che sia uno spiraglio di libertà da gustare senza regole nella strettoia di scadenze e incombenze quotidiane. Ma forse non deve essere così. Aprire un blog non significa rinnovare la tradizione dei diari personali delle scuole medie: è un impegno con chi lo legge (fosse anche una sola persona) e dunque va rispettato. Bando all’anarchia, sia ripristinata la disciplina.

blog marino

E legittimata da questa presa di coscienza, mi permetto di diffondere il monito. Senza troppi dubbi scelgo il mio destinatario: Ignazio Marino, ex sindaco di Roma. Oltre a quello ufficiale, attivo, ha anche un blog su l’Espresso, fermo alla vigilia dell’elezione in Campidoglio (giugno 2013) per svariate ragioni legate al suo ruolo, si suppone. Ora però che l’amministrazione è decaduta, dopo tutto il caos che conosciamo, Marino potrebbe riprenderne le redini e magari ripartire proprio da qui con un’altra veste. A meno che non decida di candidarsi alle primarie per le future Comunali, come ha dichiarato nei giorni scorsi.

«Sto riflettendo. Ad esempio bisogna comprendere quale sarà il passaggio per la candidatura che, a questo punto, indicherà Matteo Renzi. Perché se ci sarà un passaggio democratico attraverso le primarie, probabilmente io valuterò una possibilità del genere»

Ritornando al blog, c’è da aggiungere che il titolo è grazioso: è preso in prestito dal lessico medico, a cui l’ex chirurgo attinge spesso nei discorsi o nelle metafore. “Il metodo di Gram” è una tecnica di colorazione che serve a evidenziare particelle altrimenti invisibili della realtà (nel caso specifico batteri). In fondo, è un po’ quello che aspira a fare anche un buon blogger, con il suo racconto.

Aggiornato, mi raccomando.

Enfant prodige

Nei cinema è arrivato il documentario sulla vita di Malala, ispirato al libro autobiografico scritto dalla protagonista. La regia è del Premio Oscar americano Davis Guggenheim.

Malala Yousafzai nasce nel 1997, nel 2009 inizia a scrivere un diario per la BBC (la maggiore emittente radiotelevisiva del Regno Unito), nel 2014 è il più giovane Nobel per la Pace di tutti i tempi, grazie alla sua battaglia per il diritto all’istruzione.

A una prima occhiata si crederebbe di avere a che fare con un caso di enfant prodige, di bambino – o bambina- prodigio. Sbagliato. Di incredibile e inspiegabile questa ragazzina pakistana, al centro di una delle tracce dell’ultimo esame di maturità, non ha proprio niente. La sua storia, che l’ha resa un simbolo internazionale, è quanto di più concreto e conquistato ci possa essere.

Quel diario Malala decide di aprirlo sotto pseudonimo (Gul Makai), mentre i talebani assediano la regione in cui vive, Mingora, imponendo misure restrittive tra cui la chiusura delle scuole. Una linea contestata dalla studentessa. Tutti e tutte devono avere l’opportunità di costruire la propria formazione, è un diritto fondamentale. Nel 2012 il messaggio, giudicato minaccioso dagli estremisti, si trasforma in un bersaglio mobile: la 15enne è raggiunta da uno sparo alla testa, dopo lezione, proprio all’uscita dell’istituzione che presidia con la penna e con l’azione.

Si salva. L’anno successivo, a luglio, tiene un discorso al Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite, a New York, dove parla della condizione di molti bambini, relegati all’analfabetismo. Qualche mese dopo, a ottobre, riceve il Premio Sakharov per la libertà di pensiero, assegnato dal Parlamento Europeo. Poi, il Nobel per la Pace. A Oslo ringrazia così:

«Potrò sembrarvi una sola ragazza, una sola persona, per di più alta neanche un metro e sessanta coi tacchi. Ma non sono una voce solitaria: io sono tante voci. Sono Shazia. Sono Kainat Riaz. Sono Kainat Somro. Sono Mezon. Sono Amina. Sono quei 66 milioni di ragazze che non possono andare a scuola»

Enfant prodige, dunque?

Forse la definizione più adatta per Malala sta proprio nel suo nome: significa “addolorata”. La forza d’animo di questa giovane donna viene dalle privazioni e dal dolore. E la capacità, straordinaria, è di cercare di farli diventare tutti i giorni un participio passato. Pensando al futuro. Dei suoi coetanei e di tutti noi.